domenica 10 luglio 2011

epifania # 001091



Cammino sotto ai portici e penso alle email che devo ancora leggere, a quelle che devo ancora scrivere. Ed alle telefonate che devo fare, all'appuntamento che ho tra due ore, alla riunione di domani, al fatto che dovrò uscirmene brillante e che non ho idea di dove andare a trovare questa famosa brillantezza. Dalla posta centrale sono appena uscita, dovrei anche passare in lavanderia, intanto cerco il calzolaio che mi hanno detto essere da queste parti.

C'è una piccola vetrina non proprio immacolata, quando abbasso la maniglia in ottone per entrare ho paura che mi rimanga in mano. Metto dentro la testa e lancio un incerto buongiorno all'uomo che è seduto ad un piccolissimo tavolo di lavoro. Mi guarda con gli occhiali sulla punta del naso, non dice una parola ed aspetta che sia io a dire qualcosa. Quel silenzio mi mette a disagio, entro e gli faccio vedere quello che rimane della cerniera del mio stivale: lo prende in silenzio, se lo gira tra le mani enormi e nere, mani che immagino abbiano lavorato una vita. Cerco inutilmente di spiegargli come si è rotto, quando e dove, come se tutto questo potesse in qualche modo essere d'aiuto. Finalmente apre bocca e mi chiede per quando mi serve, io gli sorrido e gli dico – ieri. Borbotta qualcosa che non capisco e poi mi chiede se sono una di quelle che portano stivali neri di pelle anche a Luglio. Non gli rispondo ma mi produco in un altro sorriso, mentre penso che il suo accento è inaspettatamente siculo e che i 120 anni che immagino abbia passato a bologna non hanno scalfito minimamente la cadenza siciliana.

Fa danzare le mani sopra al tavolo da lavoro come se cercasse qualcosa al tatto: inizia ad armeggiare con uno strumento mai visto prima, poi ne prende un altro, lo scarta e ne sceglie un terzo. Si è richiuso in un mutismo un po' rude, assolutamente indifferente alla mia presenza, al fatto che sia lì in piedi davanti a lui.

Dentro alla bottega non c'è una luce accesa, il semibuio non aiuta però a nascondere il disordine che come la polvere ricopre il banco. Nelle scaffalature sono riposte scarpe che sembrano essere state dimenticate da 50 anni. L'uomo lavora con la luce naturale che entra dalla vetrina, ha i capelli bianchi e la pelle come il cuoio, scura e solcata da rughe che sembrano fatte con un punteruolo.

Mi adeguo all'immobilità del posto e mi siedo su una panchetta di legno in un angolo. Lascio la mia borsa a terra, ricaccio l'idea di fare qualcuna delle telefonate in sospeso e mi rendo conto che non so bene cosa fare delle mie mani. Né del mio tempo che non so come occupare, qui ed ora, col vecchio che lavora e tace, insensibile ai minuti che mi passano davanti vuoti.

Prendo in considerazione l'idea di avere un attacco psicotico lì dentro: mi devo però rassegnare ad abbandonare quell'affascinante diversivo perchè la mia è, purtroppo, solo una piccola nevrosi postmoderna e le mie fantasie non mi porteranno più in là di una qualche non definitiva elucubrazione sul tempo. Qualcosa che ha a che fare col fatto che questo laboratorio, quest'officina delle scarpe, questa bottega che sa di zolfo, questo buco è riuscito non so come a fottere il tempo: qui dentro il novecento non è mai finito.

Di fronte, c'è un'enoteca deserta. Deve essere arrivata una consegna, un uomo in camicia bianca con le maniche arrotolate spinge un carrello pieno di cartoni di vino. Potrebbe essere il gestore dell'enoteca. Potrebbe avere l'età di mio padre. Il carrello inceppa, uno dei cartoni cade e posso solo immaginare lo schianto delle bottiglie in pezzi mentre guardo la scena dalla vetrina del ciabattino. L'uomo in camicia bianca ha un gesto di frustrazione mentre il vino comincia ad espandersi sull'asfalto della strada, rosso e vischioso. E quello che rimane è una vertigine visiva, perchè guardo quel liquido che cola e si spande e divora lo spazio e non posso impedirmi di pensare che sembra sangue, non posso impedirmi di pensare ad un'altra strada, in un'altra città, in un'altra data – e non riesco ad impedirmi di pensare che, se fosse sangue, la cosa più sconvolgente di tutto quel sangue sarebbe il calore, il fatto che lo sentirei caldo mentre mi scivola tra le mani e mi renderei conto che quel calore è la vita.

Il vecchio mi sta fissando, ha in mano lo stivale riparato ed ho come l'impressione che abbia detto qualcosa che mi è sfuggito. Gli chiedo quanto gli devo, per un attimo penso che mi risponderà in lire. Mi dice una cosa improbabile come possono essere improbabili 3 euro. Lo pago, lo guardo, gli sorrido con gli angoli della bocca in giù. E mi dice - sono certo che si romperà di nuovo.

Nessun commento:

Posta un commento